“Repubblica” in declino? Però ha vinto: ha spento la sinistra

Volano stracci tra Eugenio Scalfari e Carlo De Benedetti, che forse vorrebbe liberarsi del giornale-partito nato nel 1976 «per traghettare la sinistra dall’ideologia sovietico-marxista a quella atlantico-liberale». Non è strano che saltino i nervi, scrive Federico Dezzani nella sua “breve storia, non ortodossa”, del secondo quotidiano italiano: “Repubblica” è scesa a poco più di 200.000 copie, contro le oltre 400.000 di appena sette anni fa, quando Ezio Mauro la schierò frontalmente nella battaglia contro Berlusconi. «Il crepuscolo della Seconda Repubblica avanza minaccioso e non è certo casuale che sia accompagnato dalla crisi del quotidiano che, senza dubbio, ha dominato questo periodo della storia italiana», scrive Dezzani nel suo blog. Nato «per affiancare “L’Unità”», quotidiano del Pci, «e sensibilizzare Botteghe Oscure sulle tematiche “liberali”», il giornale «cavalca nei primi anni ‘80 il caso P2, poi assiste l’assalto giudiziario che nel 1992-93 demolisce la Prima Repubblica», quindi «assume la funzione di mentore della sinistra post-comunista, traghettandola nella metamorfosi Pci-Pds-Ds-Pd», e infine «detta l’agenda al governo se la sinistra vince le elezioni», oppure «guida l’opposizione antiberlusconiana, se la sinistra le perde».

Assumendo la funzione di giornale-partito, “Repubblica” segue così le fortune dell’area politica di riferimento: “patisce” il governo Monti, «si smarrisce» con quello guidato da Enrico Letta, poi «affonda, svelato il bluff iniziale, con l’esecutivo ScalfariRenzi» e in ultimo «si sfalda con quello Gentiloni». La diffusione “cartaceo+digitale”, che nel 2011 si attesta ancora attorno alle 425.000 copie, cala così alle 315.000 dell’autunno 2015, quando Ezio Mauro, direttore sin dal 1996, cede la poltrona a Mario Calabresi, in arrivo da “La Stampa”. L’avvicendamento, prodromo del matrimonio tra “L’Espresso” e un altro gruppo editoriale “liberal” per eccellenza, l’Itedi degli Agnelli-Elkann, non porta fortuna: la diffusione subisce un nuovo tracollo, calando sino alle 210.000 copie dello scorso autunno. In redazione, continua Dezzani, sono forti i malumori nei confronti del neo-direttore, ma forse non del tutto a ragione, «considerato che Calabresi ha l’ingrato compito di “coprire” gli impopolari esecutivi Renzi e Gentiloni». Le tensioni accumulatesi dentro il quotidiano debordano in pubblico nel gennaio 2018, con il velenoso confronto a distanza tra il fondatore, Eugenio Scalfari, e l’editore Carlo De Benedetti. «Preferisco Berlusconi a Di Maio», dichiara Scalfari, inducendo De Benedetti a una velenosissima replica: «Scalfari? Un signore molto anziano che non è più in grado di sostenere domande e risposte».

Il “Corriere delle Sera”, storico concorrente, ha superato brillantemente gli ultimi anni, perdendo solo un terzo della diffusione totale (dalle 470.000 copie del 2011 alle 310.000 dello scorso anno). “La Repubblica”, sostiene Dezzani, «vive una crisi strutturale perché la sua funzione storica, quella di essere il giornale-partito che inspira e guida la sinistra “liberal”, è esaurita, causa collasso della sinistra stessa: le prossime elezioni, infatti, certificheranno la caduta ai minimi storici del Pd, incapace ormai di intercettare due categorie chiave dell’elettorato di sinistra, “giovani e lavoratori”, disperse tra Movimento 5 Stelle, astensionismo e partiti di destra». L’Ingegnere, cui non manca il senso per gli affari, ha probabilmente fiutato che il destino di “Repubblica” è segnato. Ma come è nato questo giornale-partito che, affiancando “L’Unità”, ha progressivamente acquistato la guida della sinistra, spostandola dai valori marxisti a quelli liberali? E chi è Eugenio Scalfari, ormai considerato da tutti soltanto un vegliardo che ama vantare le sue conoscenze con papa Jorge Mario Bergoglio e col direttore della Bce, Mario Draghi? E poi: chi ha sborsato il denaro per avviare il settimanale “L’Espresso”, prima ancora del quotidiano? E perché, alla De Benedetti e Scalfarifine negli anni ‘80, è entrato nell’azionariato del quotidiano il finanziere De Benedetti, che secondo Dezzani «ha giocato un ruolo di primo piano nel saccheggio dell’economia nazionale»?

“La Repubblica”, osserva l’analista, è sempre stata «la punta di lancia di tutte le operazioni euro-atlantiche contro il nostro paese», da Tangentopoli agli attacchi all’Eni, dal Rubygate al caso Regeni. Da dove viene, davvero, l’operazione “Repubblica”? Per rispondere a questa domanda, scrive Dezzani, è utile consultare una preziosa fonte di informazioni come il saggio “La sera andavamo in Via Veneto”, sottotitolo “Storia di un gruppo, dal Mondo alla Repubblica”, scritto dallo stesso Scalfari e edito da Mondadori nel 1986. «È un libro che spiega “tutto”, purché si abbia la giusta chiave per decifrarlo». La semi-autobiografia di Scalfari racconta le gesta, lunghe un quarantennio, del gruppo di “liberal”, alias “radicali” che, nell’immediato dopoguerra, «si fa rappresentante degli interessi dell’establishment atlantico, quello basato sull’asse Londra-New York». All’indomani delle elezioni del 1948, infatti, l’Italia è dominata dal bipolarismo Dc-Pci: la fedeltà di Botteghe Oscure a Mosca obbliga l’establishment atlantico a sostenere la Democrazia Cristiana, ma è un’alleanza forzata. «Questo partito cattolico di massa, un po’ terzomondista e molto statalista, non è certo in sintonia con l’oligarchia atlantica: ebraica o protestante, ovviamente atlantista, convinta sostenitrice del libero mercato e delle libertà individuali (divorzio, aborto, droghe, etc.)».

Il grande disegno dell’establishment “liberal”? «Insinuarsi nella sinistra italiana, fagocitare progressivamente il Pci e, una volta conquistato, spostarlo su valori “atlantici e liberali”». Secondo Dezzani, l’operazione parte nel 1955 con la nascita del Partito Radicale e si conclude con pieno successo nel 1991, con la nascita del Pds. In questa manovra, «gioca un ruolo decisivo Eugenio Scalfari» con il suo gruppo di “liberal”: «A loro va imputata la paternità del Partito Radicale, del settimanale “L’Espresso” e del quotidiano “La Repubblica”». Chi sono questi “liberal”? «Sono gli esponenti di quel milieu economico-finanziario-culturale, di chiara matrice massonica, che, soffocato o perlomeno domato sotto il regime fascista, rifiorisce con la conquista della penisola da parte degli alleati. Quelli del Partito d’Azione: Ferruccio Parri, Ugo La Malfa, Oronzo Reale, Bruno Visentini, Mario Paggi e Altiero Spinelli. Quelli dell’alta finanza internazionale, in contatto con i Rothschild, i Rockefeller ed i Lazard: Raffaele Mattioli, Enrico Cuccia, Donato Menichella, Guido Carli. Quelli del “grande capitale”: Vittorio Valletta, Adriano Olivetti, Cesare Merzegora. Quelli del “Congresso per la libertà della cultura”, ossia, detta brutalmente, gli intellettuali Mario Pannunzioal soldo della Cia-Mi6: Mario Pannunzio, Benedetto Croce, Ignazio Silone, Nicola Chiaromonte, Alberto Moravia, Nicolò Carandini».

Il giovane Eugenio Scalfari, reduce dagli esordi giovanili su “Roma fascista”, assolve spesso alla funzione di cerniera tra il nucleo di Roma e quello di Milano. «Perché proprio Scalfari? Perché rampollo di una benestante famiglia che frequenta da generazioni quell’ambiente (nel 1950, Scalfari sposa Simonetta De Benedetti, figlia di Giulio, storico direttore de “La Stampa”)». La scalata alla sinistra italiana da parte dei “liberal”, continua Dezzani, prevede, fin dal principio, la creazione di un giornale che possa evolversi in movimento politico: il 19 febbraio 1949 esce così il primo numero del settimanale “Mondo”, definito “laico e anticlericale”, diretto da Mario Pannunzio. Proprio “Il Mondo”, scrive Scalfari, «lanciò quella che sarebbe stata l’idea guida ed il programma politico del gruppo per 18 anni: la formazione di una terza forza politica che bilanciasse i due super-partiti Dc e Pci». Nel 1955, dal seme del “Mondo” «germoglia il Partito Radicale che, non a caso, è dominato dalle stesse personalità “laiche ed anglofile” del settimanale: Pannunzio, Scalfari e Paggi. Scopo del Partito Radicale italiano (in Francia si ripete l’esperimento con Pierre Mendès France) è quello di erodere lo spazio a sinistra occupato dal Partito Comunista, fedele a Mosca, facendo leva, più che sui diritti del lavoro, sui “diritti delle persona”, tanto cari al pensiero massonico».

Il 1955, però, è soprattutto l’anno in cui al progetto del “Mondo”, «troppo elitario e autoreferenziale per avere un impatto sulla politica», è affiancato un esperimento editoriale destinato ad avere ben altro successo: il settimanale “L’Espresso”. «Con la benevolenza del potente Raffaele Mattioli, allora direttore della Comit e massimo rappresentante in Italia della “finanza laica” connessa alle grandi piazze internazionali, Eugenio Scalfari e Arrigo Benedetti (già direttore de “L’Europeo”) ideano un settimanale (che in origine avrebbe dovuto essere un quotidiano) che non si rivolga più soltanto ai salotti degli intellettuali, ma al grande pubblico, sensibilizzandolo sulle tematiche “libertarie, progressiste, libertine” care ai liberals», scrive Dezzani. «Un settimanale nazionale, poi, che faccia molti “scoop” comodi ai poteri atlantici, colpendo ora la Dc, ora l’Eni, ora qualche fazione avversa, ora lo Stato-imprenditore, ora pungolando il Pci». Il progetto editoriale comporta però ingenti investimenti: per questo, Mattioli «indirizza Scalfari e Benedetti dal magnate di Ivrea, Adriano Olivetti». Nel capitolo “A Ivrea incontrammo Adriano OlivettiAdriano il Mago”, si legge: «L’incontro tra noi e Adriano Olivetti fu uno di quei fatti del tutto occasionali, assolutamente non prevedibili nell’economia d’un destino di gruppo, eppure determinanti come pochi altri incontri sono stati nei 35 anni di questa vicenda».

«Se non fosse avvenuto in quel momento e in quelle circostanze – scrive Scalfari – probabilmente “L’Espresso” non sarebbe mai nato e il viaggio dei liberali nel frastagliato arcipelago della vita italiana avrebbe dovuto inventarsi altri vascelli e forse seguire un diverso itinerario». Perchè proprio Adriano Olivetti, “il mago”? «La risposta a questa domanda – spiega Dezzani – va cercata nella poliedrica figura dell’impreditore eporediese: in stretto contatto con i servizi segreti inglesi già durante la guerra (nome in codice “Brown”), vicino ad esponenti del Partito d’Azione come Ferruccio Parri, sostenitore delle idee euro-federaliste di Altiero Spinelli, Olivetti è pienamente ascrivibile a quel milieu dell’alta borghesia “laica” (cioè iniziata alla massoneria) e anglofila». Di più: Scalfari lo definisce “il mago” «perché Olivetti, come Mattioli, appartiene a quel mondo occulto-esoterico (messianesimo ebraico, divinità femminili, astrologia, dottrine di George Gurdjieff e Carl Jung) che conta tra le sue fila i massimi rappresentati dell’establishment italiano “laico e liberale”. Il Movimento 5 Stelle, attraverso Gianroberto Casaleggio, è sotto quest’aspetto l’ultimo prodotto dell’agente “Brown”, Adriano Olivetti».

La permanenza di Olivetti nell’azionariato dell’“Espresso”, dove ha investito l’ingente cifra di 125 milioni di lire controllando così il 70% del capitale, dura però appena un anno: Olivetti decide di cedere le sue azioni a titolo gratuito, «regalandone il 60% de “L’Espresso” a Carlo Caracciolo, il 5% ad Arrigo Benedetti e il 5% ad Eugenio Scalfari». Si domanda Dezzani: ma quei 125 milioni erano effettivamente di Olivetti o provenivano da circuiti atlantici? Resta il fatto che, nel 1956, il principale azionista de “L’Espresso” è il principe Carlo Caracciolo, che Scalfari definisce «un bel giovane biondo di trent’anni, di nobile famiglia napoletana, figlio di Filippo Caracciolo di Castagneto (diplomatico e amicissimo di La Malfa e di Parri con i quali aveva lavorato intensamente durante la Resistenza), cognato di Gianni Agnelli, che aveva sposato sua sorella Marella». Era stato Caracciolo, Agnelli e il figlio Edoardonella Resistenza, a 17 anni aveva combattuto in Val d’Ossola nelle brigate di Giustizia e Libertà. Un aristocratico antifascista, anglofilo e “liberal”. Perfetto per guidare le battaglie che negli anni ‘60 il settimanale condurrà contro l’Eni di Enrico Mattei e poi di Eugenio Cefis.

«Il nostro gruppo – scrive Scalfari – cercò di fermare o quantomeno di rallentare la marcia verso il potere di Eugenio Cefis e del vasto sistema di alleanze che a lui facevano capo». Il gruppo editoriale si impegna contro «il circuito perverso DC-aziende di Stato-governo» e anche contro Aldo Moro: «Noi liberals – dice ancora Scalfari – vivemmo Moro, per tutti gli anni del centro-sinistra, dal ‘63 al ‘70 e anche oltre, come un avversario, il grande saponificatore». I meriti de “L’Espresso”, annota Dezzani, sono riconosciuti dall’establishment atlantico: e così, nel 1962, il settimanale può organizzare un convegno all’Eur, sul tema “la partnership atlantica”, potendo contare nientemeno che sulla partecipazione dell’“Economist”. Un successo indiscutibile: il settimanale «cavalca l’inarrestabile laicizzazione della società (divorzio, aborto, obiezione di coscienza, femminismo)», ricorda Dezzani. Ma perché i “liberal” possano scalare la sinistra italiana, ancora occupata dal monolitico e filo-sovietico Pci, «occorre fare il grande salto, dal Raffaele Mattiolisettimanale al quotidiano: solo con un simile strumento, sarà possibile insidiare “L’Unità” e traghettare progressivamente Botteghe Oscure da Mosca verso Washington».

Scrive sempre Scalfari: i rapidi mutamenti in corso nella società non venivano registrati dall’ “Unità”, scontentando i militanti Pci. «Molti di loro erano disponibili ad acquistare un secondo giornale». Dove rimediare 5 miliardi per lanciare il quotidiano? Scalfari e Caracciolo trovano un socio della Mondadori di Mario Formenton, proprietaria del settimanale “Panorama”, anch’esso “progressista” a suo modo suo. Il 14 gennaio 1976 nasce così “La Repubblica”. Poco prima del lancio, nel settembre 1975, incontra personalmente Enrico Berlinguer, illustrandogli i suoi piani verso il Pci: «Nessun pregiudizio ideologico, rifiuto di ogni ghettizzazione e discriminazione, nostra propensione per un’ipotesi di alternativa di sinistra rispetto al suo programma di compromesso storico». La Repubblica, insomma, «deve allontanare il Pci sia dalla Democrazia Cristiana che da Mosca, per avvicinarlo a Washington», sintetizza Dezzani: «L’omicidio Moro (che avrebbe voluto pilotare l’ingresso dei comunisti al governo, sedendo al Quirinale) ed il quasi concomitante viaggio di Giorgio Napolitano negli Stati Uniti (primavera dl 1978), completano la manovra». A partire dal 1979, si può dire che il segretario del Pci avesse scelto “Repubblica” «quale sede privilegiata per esporre il suo pensiero», sottolinea Scalfari.

Sparito Moro dalla corsa verso il Quirinale, aggiunge Dezzani, rimane però ancora l’insidia di Giulio Andreotti: «Il caso Gelli-P2, ampiamente cavalcato dal Gruppo Espresso, spegne definitivamente i sogni presidenziali del Divo Giulio». Nonostante la tiratura di Repubblica aumenti, i conti faticano a tornare, tanto che a metà degli anni ’80 il gruppo è in cattive acque. «Entra così in scena Carlo De Benedetti, destinato, dopo la “guerra di Segrate” e la spartizione della Mondadori con Silvio Berlusconi, a diventare l’azionista di riferimento del gruppo». Ma perché interviene proprio De Benedetti a soccorre il quotidiano dell’establishment “liberal”? Per Dezzani, la risposta è semplice: l’Ingegnere («cui si deve, ad esempio, la distruzione del settore informatica dell’Olivetti») è il rappresentante di quella finanza internazionale che, attraverso il banchiere Raffaele Mattioli, aveva già patrocinato la nascita dell’“Espresso”. Gli anni ‘80, però, sono dominati da una figura ingombrante: Bettino CraxiCraxi. «Socialista, filo-arabo, attento agli interessi nazionali e, perciò, “fascista” se non “nazional-socialista” tout court». “La Repubblica”, ovviamente, «guida l’opposizione al segretario del Psi».

È significativo, osserva Dezzani, quanto scrive Scalfari: «I socialisti del nuovo corso hanno coniato una definizione curiosa: noi saremmo la nuova destra, insieme ad alcuni esponenti dell’imprenditoria (leggi De Benedetti), ad alcuni grandi borghesi (leggi Bruno Visentini), e all’ala berlingueriana del Pci. Una nuova destra tecnocratica, giacobina, illuminata, che però non disdegna gli affari corsari e vagheggia governi presidenziali di tipo (pensate un po’!) badogliano». Poi però Tangentopoli spazza via il Pentapartito: «L’establishment euro-atlantico ha deciso che sarà la sinistra a guidare la stagione delle privatizzazioni e l’ingresso dell’Italia “in Europa”», sottolinea Dezzani. “Repubblica” «ha dato il proprio determinante contributo al risultato», fagocitando progressivamente il Pci-Pds, sino a dettarne la linea, anche dopo la dirompente “discesa in campo” del Cavaliere. «L’ingresso in politica di Silvio Berlusconi scatena, nel 1994, una guerra destinata a durare 25 anni: “La Repubblica” è il campione dell’antiberlusconismo e, di conseguenza, il campione della sinistra», scrive Dezzani. «La Bergoglioscalata al campo progressista, iniziata nel lontano 1976, ha ottenuto un tale successo che l’editore del giornale-partito, Carlo De Benedetti, è anche la “tessera numero 1” del Partito Democratico che nasce nel 2007».

Per Dezzani «si tratta, proprio come sognato da Scalfari trent’anni prima, di un grande “partito radicale” che, accantonati i diritti del lavoro, difende soltanto più “le libertà personali” (femminismo, omosessualità, droga, aborto, immigrazione etc.)». La simbiosi tra il Gruppo Espresso e il Pd è tale che le sfortune del secondo si ripercuotono anche sul primo: sostenendo prima Monti, poi Renzi e infine Gentiloni, il quotidiano «perde lettori alla stesso ritmo con cui la sinistra perde consensi». E’ un fatto: «Giovani (ormai demograficamente marginali) e “lavoratori”, due colonne portanti della sinistra e del pubblico di “Repubblica”, non votano più Pd, né leggono una rivista del Gruppo Espresso: l’enorme massa del disagio sociale si rifugia nell’astensionismo, nei partiti di destra o nel Movimento 5 Stelle, creato ad hoc dagli stessi poteri che nel 1955 avevano incoraggiato la nascita del settimanale “L’Espresso”». I valori “liberali”, conclude Dezzani, «hanno talmente impregnato la società che persino il modernista Jorge Mario Bergoglio, intima conoscenza di Eugenio Scalfari, li promulga da San Pietro». Per cui «non ha torto, l’ingegnere De Benedetti, a volersi disfare della “Repubblica”: la sua funzione storica è, oggettivamente, esaurita».

 

tratto da: Libreidee.com

“Repubblica” in declino? Però ha vinto: ha spento la sinistraultima modifica: 2018-02-03T12:28:43+01:00da fab_kl
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